- Alessandro Padoa
2. Perché tutto questo?
Ero piccolo, e leggevo molto. Sicuramente più di quanto faccia adesso. Si, ok, leggevo Topolino, Geronimo Stilton e Piccoli Brividi, però leggevo. Per usare un termine che detesto, li divoravo i libri. Tra tutti quelli che lessi, ce ne fu uno però che mi piacque veramente tanto. Talmente tanto, che forse lo lessi due volte di fila. Avevo meno di dieci anni, e probabilmente non era un libro da ragazzini della mia età, ma era tutto ciò che trovai nella mia casa in Abruzzo durante la solita, immancabile, vacanza estiva plurisettimanale. Parliamo di tempi in cui i cellulari avevano al massimo snake ed internet era il lusso. Sì, internet era proprio il lusso. Ricordo benissimo che una volta mi venne la voglia di cercare informazioni sul Madagascar sul computer di casa. Ero appassionato di queste cose un po' esotiche, che rimandassero alla noce di cocco, visto che già avevo capito che tutto ciò che fosse a base di cocco sarebbe stato il mio debole. Dai Raffaello, all'acqua di cocco, al gelato al cocco (in particolare quello dell'Antica Gelateria del Corso che davano come dessert al ristorante), ai bagnoschiuma al cocco. Mamma mi disse “ok, ma veloce, che si paga”. Eravamo nella preistoria, eravamo veramente nella preistoria e non ce ne rendevamo conto. Il rumore del modem 56k è qualcosa della cui conoscenza vado fiero. Quindi, se le condizioni di partenza erano queste, figuriamoci in un paese sperduto nella campagna abruzzese, dove tutt'ora, 2019, il telefono prende Edge (E), ripeto, il telefono prende Edge, beh, figuriamoci quali potessero essere le condizioni di arrivo in un paese del genere. E dunque ho memoria di un piccolo me che, dentro al suo letto, legge un libro di Beppe Severgnini e ride da solo, come un idiota. Riuscire a far ridere tramite un libro, signori, non è da tutti. Senza l'ausilio audiovisivo, è tutto più complesso, poiché bisogna far in modo che la scena si materializzi nella testa del lettore. E, per far si che ciò avvenga, deve essere una scena facilmente trasformabile in immagine. Qual era il libro in questione? Era “Un italiano in America”, ovviamente. Quando lo lessi, mi chiesi come si facesse a diventare italiani in America. Come si potesse assumere questa prestigiosa qualifica. E, benché non abbia mai cercato di acquisirla, è arrivata da sola. Quello resta, ad oggi, l'unico libro di Severgnini che io abbia letto. È un libro del 1995, ed è fantastico vedere come, ventitré anni dopo, il tempo sembra in realtà non essere mai passato. Ne ricordo, naturalmente, il macroargomento. Parlava del suo soggiorno negli Stati Uniti e del suo adattarsi alla vita oltreoceano, scoprendone aspetti inaspettati. Ma non mi vengono in mente scene particolari, se non quella dell'italiano che si agita dietro una finestra per capire come funziona una veneziana. Data la consapevolezza di queste lacune, ho deciso di acquistare l'ebook del testo di cui sopra. Ho speso sei euro per leggerne la prima pagina e capire che no, non dovevo leggerlo. Non dovevo leggerlo perché quella che voglio raccontare è la mia America, non la sua. Non dovevo leggerlo perché l'ispirazione che speravo di trovare sarebbe ben presto scaduta in imitazione. Non dovevo leggerlo perché, anche senza leggerlo nuovamente, ero convinto che i ventitré anni di distanza non mi avrebbero impedito di avere, e dare al lettore, la stessa identica immagine dell'America data da Severgnini solo un anno dopo la mia nascita.
Non sono stato l'unico italiano in America, come non lo era stato lui, e non sarò stato l'ultimo. Ma, tra le varie ragioni per cui sono stato catapultato in questo mondo, mi piace pensare ci sia anche quella di doverlo raccontare. Quella di dover svelare al mondo la vera America. Quella che in televisione raramente si vede, quella che è distante anni luce dal jet set, da Hollywood. Quella che, nonostante gli anni non certo felici del nostro paese, continua ad offrire una qualità della vita a mio avviso inferiore alla nostra. Troppo spesso dimentichiamo che la qualità della vita si misura anche, e soprattutto, dai dettagli di cui essa si compone. Ecco, trovare uova e bacon a colazione, per me, è un dettaglio troppo rilevante per far sì che non venga computato in un'analisi qualitativa di due paesi i quali, sebbene appartenenti a quell'emisfero sociale, politico e culturale definito “occidentale”, si trovino in realtà agli antipodi per quanto riguarda il 90% delle abitudini giornaliere.
Sì, io sono qua per ridiscutere un attimo il sogno americano. Sono qua per trasformarlo, quasi, in un incubo. Perché tutto quello che di brutto ho visto in Italia, l'ho visto anche negli Stati Uniti. Ma ciò che di bello ho visto negli Stati Uniti, non si avvicina lontanamente a quello che di bello ho visto in Italia. È una questione di abitudine, dice il diplomatico. Se fossi nato americano, ti piacerebbe vivere in America, insiste il diplomatico. Sì, no, forse. Tutti gli americani che sono stati in Italia vorrebbero viverci. Praticamente tutti. Ma non si tratta nemmeno di abitudini. L'abitudine trascende l'oggettività. L'abitudine è l'adattamento psicofisico ad una realtà che non è possibile evitare. L'abitudine è il plasmarsi della nostra attitudine al mondo che per forza di cose ci circonda. Ed anche io, in parte, mi sono abituato, ma avendo a disposizione la reale essenza di entrambi i mondi, posso giudicare con una certa oggettività. Sei di parte, aggiunge il malizioso. Sì, lo sono, sempre lo sarò. Ma racconterò di quello che ho visto. Racconterò di quello che ho vissuto. Senza faziosità. Racconterò le cose come si sono presentate alla mia persona. Facendo il tifo per l'Italia. Felice che le cose in questione si siano presentate male nella maggior parte dei casi ma, lo ripeto, senza essere imparziale. E la prima cosa che imparzialmente voglio menzionare è il senso di confusione che mi ha pervaso nel momento in cui ho messo piede in territorio americano. È tutto un caos, che per loro è un caos calmo, mentre per noi è un caos comico. È un po' di tutto e un po' di niente, ma certamente lascia trasparire quanto questo paese viva in un costante stato di gigantificazione del quotidiano. Quando si dice che negli USA tutto è grande, non ci si riferisce solamente all'elemento materiale. È grande anche il modo di pensare, ma grande nel senso di troppo. Grande nel senso di eccesso. Nel senso di esagerato. Grande nel senso che per mettere un chiodo nel muro si debbano acquistare settecento attrezzi diversi. Grande nel senso che da “Bed, bath and beyond” ci sono utensili per la casa la cui utilità è sconosciuta anche allo stesso inventore. Ci sono strumenti che servono a sbucciare frutti che non sono ancora stati scoperti. Coltelli che servono a tagliare materiali che ancora non sono stati prodotti. Lavatrici che sembrano astronavi. Sono abbastanza sicuro che, se decidi di rientrare da Bed, bath and beyond subito dopo esservi uscito, i prodotti sugli scaffali non siano più gli stessi che hai visto venti minuti prima, ma siano stati sostituiti dall'ultima versione, rilasciata soltanto sette secondi prima dalla casa madre.
E sono consapevole, e sempre me lo rimproverò, di non aver preso abbastanza appunti. Di essermi fatto sfuggire, in mezzo a tutta questa grandezza, molte opportunità di racconto. Troppe le volte in cui nella mia testa ho immaginato perfette frasi da diario e le ho lasciate svanire nel nulla, senza prenderne nota, per la semplice pigrizia o per il non aver creduto troppo in me stesso. Per l'errore, di non aver creduto troppo in me stesso e nella mia capacità di riuscire a raccontare in maniera sistematica, divertente e originale usi e costumi di quella terra che, lo ammetto, mi ha accolto come un suo figlio. Priva, prima, del pregiudizio che io ho sempre nutrito verso di lei. Priva, poi, del giudizio di cui mi sono sempre arrogato il diritto di poter dare. È vero, ho dovuto prendere le mie precauzioni per evitare che accadesse. Niente costume slip per nuotare in piscina, così come niente accappatoio per asciugarsi. Si usano dei normali pantaloncini da sport e un asciugamano, altrimenti sei considerato gay. Cioè, capito? Se usi un accappatoio e il famoso “costume a mutanda”, che là chiamano speedo, dal nome del brand Speedo, come se fosse l'unico a produrre quei costumi (che è un po' come quando da piccoli si diceva “la Ferrari” per intendere tutta la categoria Formula 1) a loro viene da ridere, perché è da donne. Aspetta, aspetta. Davvero cinque righe sopra di questa ho detto che gli Stati Uniti sono privi di giudizio e pregiudizio? E poi mi sono ricordato di non poter andare in piscina con un qualsiasi indumento attillato, così come in palestra. Questo non solo è pregiudizio e giudizio. Questo è pregiudizio stupido e giudizio stupido. Davvero, per due righe, stavo elogiando gli Stati Uniti d'America? Io?
Chiedo scusa, devo essermi palesemente sbagliato. Mi sono palesemente sbagliato, anzi. E vi dirò di più. Io sono un bugiardo. Con gli americani sono veramente un ipocrita, ma non è del tutto colpa mia. La questione è che l'americano vive il sogno. L'americano sta veramente vivendo il sogno. Crede che non ci sia nulla di meglio al mondo della vita che fa negli Stati Uniti, a meno che non abbia provato altre esperienze, vedi quelli che sono stati in Italia, come dicevo sopra. Quindi, nel dubbio, quando uno di loro mi chiedeva se mi piacesse vivere in America, mentivo. Mentivo a fin di bene. Mentivo nel loro interesse, perché non volevo essere io a svegliarli bruscamente da loro sogno. E mentivo nel mio interesse, perché non volevo imbattermi in conversazioni nelle quali i punti di vista sono due, ma uno dei contendenti poteva esser portatore di uno soltanto dei due punti di vista.
A voi, però, non ho mai mentito, e non inizierò ora. Chi mi conosce, sa quale sia la mia risposta alla domanda “ti piaceva vivere in America?”. Chi non mi conosce, la avrà già capita. Ne son certo.